Giaccio in questo luogo da un tempo che ormai non saprei quantificare.

Resto immobile, placcato dalla gravità, la mia mente obnubilata nella nebbia della sofferenza, in equilibrio sul precipizio dell’incoscienza, sforzandomi di reagire al desiderio invitante di lasciarmi andare nell’abisso del nulla.

Resto immobile, tranne quando all’improvviso un respiro gelido fa vibrare la superficie del mio corpo, come il tocco senza vita di uno spettro. Allora sento la mia epidermide secernere dolorosamente e la mia mente urlare grida strazianti e silenziose che le mie fauci immobili non possono vocalizzare.

E ad ogni alito sento il dolore trafiggere tutti i miei arti come spilli incandescenti, ma mi sforzo di restare immobile, di frenare il tremito, questo doloroso vibrare, sapendo che ogni cedimento porterà ad ulteriori patimenti.

Di tanto in tanto un dio lontano e dimenticato mi grazia con qualche minuto di incoscienza, dal quale il mio desiderio di sopravvivenza mi desta con improvviso e dolorosa mestizia.

La mia casa è lontana, la mia progenie mi attende e il loro ricordo mi dilania. Mentre attorno a me odo scricchiolii e schiocchi dell’ambiente che impassibile mi osserva, lontano so che un nuovo giorno sta prendendo forma.

Tengo le palpebre dei miei globi oculari ben serrate, timoroso delle radiazioni che inevitabilmente le trafiggeranno non appena la linea di transizione avrà fatto il suo corso sulla superficie di questo pianeta. Respiro piano, l’atmosfera densa mi sembra melassa bruciante nei miei sacchi respiratori, affaticati e doloranti per lo sforzo di tenermi in vita.

Finalmente odo un latrare vicino e il tempo sembra riavvolgersi e agglutinarsi in se stesso con uno scatto.

Iperestendo una appendice e ghermisco con lentezza snervante la sonda che giace a pochi centimetri dalla mia carcassa, traendola con sforzo penoso e un lamento silenzioso.

La avvolgo in me e attendo per un tempo che non sono non grado più di contare. Dopo secoli o pochi secondi la sonda vibra e mi desta dal torpore.

Sollevo con diffidenza una palpebra e scopro con sollievo che non v’è odio in questa stella, il dolore della cecità mi è stato risparmiato.

Guardo la sonda.

– 37.2, sono morto. –

– alza il culo, devi portare la bimba all’asilo – mi intima il Dio.

(Tratto da una storia vera)